27 Ottobre 2021

La diffamazione tramite i social network

La diffusione di messaggi offensivi tramite i social network integra un’ipotesi aggravata di diffamazione, veicolando la trasmissione di notizie a un numero indeterminato di persone. Vediamo insieme in quali casi si configura tale ipotesi aggravata di reato.

Il reato di diffamazione.

Prima di soffermarci sulla specifica circostanza aggravante, che costituisce oggetto del presente articolo, verrà dapprima analizzato, seppur in breve, il reato di diffamazione previsto e punito dall’art. 595 c.p.
A norma di tale articolo, “chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a € 1.032,00.
Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a € 2.065,00.
Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a € 516.
Se l’offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad una Autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate”.
Il bene giuridico tutelato dalla norma in esame, pertanto, è la reputazione del singolo, per tale intendendosi sia quella personale che professionale.

Elementi oggettivi del reato di diffamazione.

Il reato di diffamazione si configura se vi è la simultanea presenza di tre elementi:

  • assenza dell’offeso: tale elemento distingue il reato di diffamazione da quello di ingiuria, che punisce chiunque offende l’onore e il decoro di una persona presente.
    Tale ultimo reato, previsto dall’art. 594 c.p., è stato poi abrogato dal D.lgs. N. 7/2016;
  • offesa dell’altrui reputazione: per tale intendendosi la lesione delle qualità personali, morali, sociali e professionali di un individuo e si realizza quando viene lesa l’immagine, il decoro e l’onore di una data persona;
  • comunicazione con più persone: la comunicazione potrà essere sia orale che scritta. In ogni caso, la divulgazione del fatto offensivo dovrà avvenire nei confronti di almeno due persone, ovvero con un solo soggetto ma con modalità tali da far presumere che la notizia verrà certamente a conoscenza di altre persone (“Responsabilità civile e penale dei reati sul web” di Sara Piancastelli e Omar Salvini Edizioni Duepuntozero).

Elemento soggettivo del reato di diffamazione.

L’elemento soggettivo del reato di diffamazione è il dolo generico: il soggetto agente dovrà pertanto essere consapevole:

  • di pronunciare o scrivere una frase lesiva dell’altrui reputazione;
  • della volontà che la frase denigratoria venga a conoscenza di più persone.

La diffamazione è aggravata se avviene tramite i social network ex art. 595 co. 3^ c.p.

Con frequenza oggi giorno si assiste all’uso indiscriminato dei canali social e, più in generale, di tutti mezzi, informatici e telematici, per manifestare il proprio pensiero.
A volte però si assiste, purtroppo, anche a un uso distorto di tali piattaforme.
Utilizzando un’espressione in voga negli ultimi tempi, si fa strada sempre più di frequente il fenomeno dei c.d. leoni da tastiera che, nascondendosi (o ritenendo di nascondersi), dietro a uno schermo, utilizzano blog, forum e social network per veicolare messaggi denigratori verso uno o più soggetti.
Ebbene, giova segnalare che per costante giurisprudenza, da tempo ormai, l’uso dei social network e quindi la diffusione di messaggi offensivi veicolati a mezzo internet, integra un’ipotesi di diffamazione aggravata con altro mezzo di pubblicità ex art. 595 co. 3^ c.p. (“Responsabilità civile e penale dei reati sul web” di Sara Piancastelli e Omar Salvini Edizioni Duepuntozero).
I blog, i forum, le newsletter e i social network rientrano infatti in quel concetto di “altra pubblicità” prevista come circostanza aggravante dal cit. articolo.
In altri termini, offendere qualcuno su Facebook, su Instagram e in generale, attraverso qualsivoglia strumento telematico e/o informatico idoneo a veicolare messaggi a un numero indeterminato di soggetti, non costituisce solo reato penale ma comporta anche una condanna molto più severa.
Ciò in quanto il mezzo utilizzato per offendere qualcuno è potenzialmente in grado di diffondere il messaggio lesivo dell’altrui reputazione a un numero difatti indefinito e indeterminato di persone (Cassazione Penale Sezione V 6 luglio 2020 N. 22049).
L’utilizzo di tali strumenti, pertanto, amplia e aggrava la capacità diffusiva del messaggio lesivo e per tale ragione viene più severamente punito.

Verifica dell’indirizzo IP per capire da dove proviene il contenuto lesivo.

Nel caso di diffamazione avvenuta attraverso uno dei suindicati strumenti, per individuare l’autore del fatto di reato sarà necessario, innanzitutto, verificare l’indirizzo IP di provenienza del contenuto lesivo.
Per indirizzo IP si intende un indirizzo Internet Protocol, costituito da una serie univoca di numeri e lettere assegnata a ogni dispositivo connesso a una rete di computer, come internet (“Responsabilità civile e penale dei reati sul web” di Sara Piancastelli e Omar Salvini Edizioni Duepuntozero).
In altri termini, ogni PC, smartphone o tablet ha un suo indirizzo IP, che lo differenzia da qualsivoglia altro apparecchio multimediale.
Per ricondurre la pagina o il profilo social a un determinato soggetto (presunto autore del reato), l’Autorità Giudiziaria dovrà pertanto dimostrare che l’imputato è titolare dello specifico indirizzo IP dal quale è stato inviato – o meglio – pubblicato un determinato contenuto diffamatorio.
Tale dimostrazione potrebbe risultare non di semplice soluzione nei casi in cui non vi sia assoluta certezza sulla persona che accede a quello specifico apparecchio elettronico.
Si pensi, a mero titolo esemplificativo, agli indirizzi IP in uso in un ufficio o, più in generale, a quei contesti caratterizzati da una promiscuità di uso di un determinato apparecchio (ad esempio il PC di casa).
Sarà quindi il Giudice, volta per volta, a dover valutare tutte le circostanze del caso concreto, pronunciandosi sull’effettivo (o meno) assolvimento dell’onere probatorio per ritenere integrata la fattispecie di reato in esame.

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